Da più di un mese si discute molto del film di Todd Philips, sulla scia del consistente numero di spettatori e del favore dei giudizi critici, alimentati in parte dalla vittoria del Leone d’Oro al Festival di Venezia.
Sebbene si tratti di un buon prodotto, nella regia, nella fotografia e soprattutto nella recitazione di Joaquin Phoenix, non si può dire che sia un capolavoro. Proprio nel tentativo di emanciparsi da prodotto, industriale e cinematografico, a opera d’arte risiedono le debolezze di questo film, che risente infatti della sua ambizione, ovvero di creare intorno ad una trama fumettistica uno spessore autoriale e analitico, tali da coinvolgere qualsiasi fascia di pubblico, dai bambini ai cinefili.
Da qui nascono le ambiguità di una storia, che calca troppo sui significati psicologici, sociologici e morali, perdendo coerenza. Il lato psichiatrico e psicoanalitico è forzato e più fumettistico della maschera del protagonista, soprattutto nell’andare a specificare la follia della madre, indebolendone il personaggio, che invece in tutta la prima parte del film viveva di una sua discreta grandezza. Il lato sociologico, palesemente ispirato da Quinto Potere e da altro buon cinema americano, è scontato così come l’ambiguo confine morale del male, incarnato dalla figura dell’antieroe emarginato, solitario e visionario, che si trova a lottare contro il vero male insito nella società.
Joker è la dimostrazione di come buona parte del cinema americano manchi di misura. I supereroi sono figli degli eroi mitologici, ma non avendone la stessa portata simbolica, diventano delle gigantografie piuttosto che dei ritratti dell’uomo e della sua perenne oscillazione tra bene e male. Anche perché sono figli di un immaginario nato direttamente dalle immagini, che siano fumetto o cinema, perciò destinato a significare attraverso l’aumento e l’ingrandimento piuttosto che la sottrazione.
Quel che manca Joker è proprio la capacità di sottrazione, presente soltanto nella prima parte della sceneggiatura, quando i personaggi, anche quelli minori, come i compagni di lavoro e sventura del protagonista, sua madre, l’imprenditore o la vicina sono un accenno e un disegno quasi delicato. Poi man mano, come in gran parte del cinema hollywoodiano, la storia è obbligata a crescere e così dal disegno si passa a un ritratto “pornografico” dei diversi personaggi, ognuno dei quali è destinato ad incarnare un aspetto o un significato preciso. Si mostra tutto amplificandolo, finendo col mortificare la bellezza delle sfumature.
E tutto il film risente di questo “troppo”, così come la recitazione di Joaquin Phoenix, su cui è inevitabile soffermarsi. Più che un presunto film d’autore (come se ancora avesse senso tale etichetta) è un film d’attore. La camera è in funzione del suo volto, delle sue smorfie, del suo corpo smunto, della camminata sbilenca, delle pose in perenne oscillazione tra la figura del perdente e la rockstar. La bravura dell’attore è mostruosa, condensata nella risata impressa in un ghigno di dolore, ma a lungo andare diventa anch’essa un troppo. Una bravura eccessiva rischia di divenire stucchevole.
Il film pare infatti esser un continuo elogio delle capacità attoriali di Phoenix e di essere al suo servizio, lasciando così che tutto il resto passi in secondo piano.
Per comprendere a fondo la mancanza di misura del film, basti fare un confronto con altri due film recenti che hanno avuto un buon successo, Martin Eden e Parasite. E forse non è una coincidenza che questi tre film, figli di culture e autori molto diversi tra loro, affrontino lo stesso tema di attualità, il rapporto impossibile tra le classi abbienti al potere e quelle subordinate e popolari con tutte le ingiustizie che ne conseguono.
Per cogliere la differenza di prospettiva è sufficiente soffermarsi sulle sequenze finali. In Joker il protagonista sembra morto col corpo sdraiato sul cofano di una macchina in una posizione da Cristo, poi si rianima e si rialza con le mani allargate in una posa da rockstar più vicina a quella di un Jim Morrison, aizzando la massa che protesta e distrugge. Il rock, altro mito americano.
Nel film coreano il capofamiglia povero, dopo aver fallito la sua personale e parassitaria scalata sociale, sopravvive in un bunker scavato all’interno di una casa sfarzosa, di cui è uno specchio cieco e sordo. Nel film italiano il marinaio scrittore, dopo aver trasformato la sua natura sociale attraverso una rapida scalata sociale, sente di non appartenere più a sé stesso e alla sua vita, allora non gli resta che tornare al mare, ma questa volto, disperato e più consapevole, solo col suo corpo e senza la barca ad accompagnarne e proteggere la direzione.
In questi finali si condensa una specificità culturale, che è una prospettiva ma anche e soprattutto un tocco. Ed è normale che faccia più rumore nel dibattito sociale un film come Joker, che riproduce il caos sociale, dilatandolo, mentre gli altri due film ne colgono alcune sfumature, sottraendo il rumore di fondo che quotidianamente il nostro linguaggio alimenta.
E così la mitologia americana, orfana delle sue radici va avanti, trasfigurando la realtà non in simbolo ma in una macchietta fumettistica, in cui noi ci illudiamo di vederci riflessi.
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