La guerra siriana è un enorme buco nero che ha stritolato al suo interno centinaia di migliaia di vite umane, anche quelle di migliaia di giovani provenienti dal nostro mondo, il mondo occidentale. La storia di due combattenti stranieri, del dolore e dell’impegno delle loro madri.
La guerra siriana è un enorme buco nero che ha stritolato al suo interno centinaia di migliaia di vite umane. I buchi neri sono entità astronomiche che per la loro spaventosa forza gravitazionale imprigionano al loro interno perfino la luce. Nel buco nero siriano sono entrati, senza poterne più uscire, migliaia e migliaia di giovani provenienti dal nostro mondo, il mondo occidentale.
Sulla natura e sull’origine di questo conflitto si è detto e scritto moltissimo; si è fatto scorrere, come si sarebbe detto una volta, un fiume di inchiostro. Purtroppo accanto al fiume di inchiostro scorre da ormai otto anni un atroce fiume di sangue; fiume di sangue che almeno per il momento non pare voglia arrestarsi.
Era dai tempi della guerra di Spagna, guerra combattuta da antifascisti e sostenitori del generale Francisco Franco sul finire degli anni trenta del secolo scorso, che una guerra non richiamava un numero così elevato di combattenti provenienti da paesi non direttamente coinvolti nel conflitto.
Come in Spagna dove i volontari accorsero a sostenere le due parti in lotta, anche in Siria le forze fedeli ad Assad, ed il fronte a lui avverso, si sono avvalsi di un grande afflusso di combattenti stranieri, volontari che in un’epoca di anglomania diffusa e dominante sono stati denominati Foreign Fighters.
Il regime siriano, attualmente vincente, ha potuto giovarsi del sostegno decisivo politico e militare di Russia e Iran, ma anche una moltitudine di miliziani volontari provenienti da tutto il mondo sciita, Libano, Pakistan, Afghanistan, Iraq, oltre ovviamente all’Iran, ha contribuito notevolmente a volgere le sorti del conflitto a suo favore.
L’apporto straniero ad Assad è stato decisivo per impedirne il collasso fra il 2011 e il 2013, si pensi al ruolo di Hezbollah, la milizia sciita libanese, e ha posto le basi del suo successo quando nel settembre del 2015 la Russia è intervenuta ufficialmente e massicciamente nel conflitto.
Questa, a grandi linee, è la storia; la storia che registrano oggi le riviste più o meno specializzate, i giornali e i notiziari televisivi. A dire il vero qui in Italia della guerra siriana non si parla moltissimo; si preferisce occuparsi di cose di casa nostra: di che dicono Di Maio, Zingaretti e Salvini, delle imminenti elezioni regionali in Emilia Romagna, della lotta al vertice fra Juventus e Inter; e fra due o tre mesi si parlerà molto di festival di Sanremo.
Fra qualche anno, quando finalmente la maledetta guerra di Siria sarà finita, perché le guerre tutte prima o poi finiscono, ci si dimenticherà perfino delle ragioni che l’hanno provocata. Il conflitto siriano finirà con la vittoria che appare ormai certa di quel delicato filantropo vegetariano che risponde al nome di Bashar Assad, e la sua storia, storia che certo non appassionerà le moltitudini in altre faccende affaccendate, sarà raccontata in articoli, libri documentari, forse film, chissà che perfino Hollywood non se ne occupi.
Sarà raccontata come si raccontano le guerre; scrivendo di battaglie e di schieramenti, di condottieri, di vincitori e di vinti, più dei primi che dei secondi, ma forse nessuno storico, per quanto bravo, riuscirà a dar ragione del maelstrom di dolore che l’ha accompagnata.
Raccontiamo qui di seguito in breve la storia di due foreign fighters e delle loro madri. Sono due ragazzi occidentali: un danese e un canadese; sono due vicende dolorose con aspetti paradigmatici, cioè comuni a tante altre storie simili di ragazzi cresciuti nel nostro mondo e nelle nostre false certezze.
Di queste vicende forse un giorno si riuscirà a parlare con il necessario distacco, ma anche con la giusta umanità e comprensione e quei ragazzi che sono partiti lasciando le famiglie in un dolore difficile da raccontare, non saranno solo Foreign Fighters, ma esseri umani scomparsi in una tragedia infinita. Almeno è quello che ci auguriamo di cuore.
Karolina Dam è una mamma danese, una vichinga forte anche fisicamente; ha un collo taurino e il sorriso e la risata travolgenti. Suo figlio Lukas diventò musulmano a soli 15 anni. Nel giugno del 2014 senza dirle nulla, lasciò la Danimarca per la Turchia e in seguito passò il confine con la Siria.
Aveva diciott’anni, e il viso di un ragazzo su cui compare la prima timida barba, che lui non radeva in osservanza alla tradizione islamica, quando il 26 dicembre del 2014, a Kobane, un jet della coalizione anti-Isis, francese o americano chissà, ha fatto cadere tre bombe in successione sull’ edificio dove si trovava, e Lukas è stato fatto a pezzi. Karolina, come altre madri che hanno vissuto la stessa esperienza, ha fondato un’associazione che si chiama Sons and Daughters, associazione che si propone di lottare contro ogni forma di estremismo violento e, nel limite del possibile, di aiutare il ritorno in patria e il loro reinserimento dei foreign fighters sopravvissuti. Karolina, come tutti i genitori dei ragazzi e delle ragazze caduti in Siria, non avrà mai una tomba su cui piangere suo figlio.
Simile a quella di Karolina è la storia di Christianne Boudreau, canadese, e madre di Damian. Damian era un ragazzo molto brillante, sensibile, profondo. A diciassette anni, nel 2008, come dicono i musulmani, ritorna all’Islam. I giovani hanno tendenza a prendere molto sul serio le loro scelte, specie se hanno la stoffa di uno come il figlio maggiore di Christianne.
La vita di Damian cambia; cambia il nome innanzitutto e diventa Mustafa, si fa crescere la barba e si immerge completamente nella fede musulmana sunnita. Christianne ricorda un ragazzo divenuto sereno, molto preso nella sua nuova vita spirituale. Nel novembre del 2012 racconta alla madre che vuole andare in Egitto per imparare l’arabo. Non va in Egitto, ma in Turchia e da lì passa il confine con la Siria per aggregarsi ai combattenti di Jabat al Nusra. Christianne apprende la cosa dai servizi segreti canadesi che nel 2012, cosa abbastanza comune all’epoca quando in occidente si pensava che Assad sarebbe presto caduto, non avvertono la famiglia e lo lasciano partire.
Secondo le informazioni in possesso della madre, Damian verrà catturato da combattenti del Free Syrian Army e passato per le armi nella regione di Aleppo il 14 gennaio del 2014. Aveva 22 anni. Anche Christianne ha fondato un’associazione che come quella di Karolina si propone la lotta all’estremismo ed il supporto alle famiglie che hanno perso un figlio nella guerra siriana.
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