Nonostante il Primo Ministro Conte affermasse il contrario, la conferenza stampa dopo l’incontro ad Ankara con il Presidente Erdogan ha mostrato come l’Italia non abbia più capacità di iniziativa nel contesto libico e abbia perso la capacità, già flebile, di fare pressioni sugli attori del conflitto nel paese nordafricano. Per capire le ragioni di questo indebolimento della politica estera italiana forse dobbiamo fare qualche passo indietro.
Non c’è spazio in questa sede per una storia esaustiva delle relazioni italo-libiche ma bisogna dire qualcosa sulla politica estera italiana, che non sembra sempre molto chiara. Ogni volta che una nuova coalizione di governo emerge, promette un nuovo corso in politica estera. La nuova opposizione, da parte sua, condanna lo stravolgimento di tale politica. Questo tipico scontro verbale, però, non sempre riflette un reale cambiamento in politica estera. Al contrario, la letteratura accademica ci dice che da quando la Repubblica fu fondata, le politiche Atlantiche e Europee dell’Italia sono rimaste pressoché invariate a quando furono formulate per la prima volta negli anni ’40.
E dagli anni ’90, invece, che la politica italiana è rimasta concentrata su tre cerchi concentrici: il circolo atlantico che garantisce la sicurezza militare, il circolo europeo che garantisce la modernizzazione economica e sociale e, infine, il circolo Mediterraneo che avrebbe dovuto assicurare una politica più autonoma e la promozione degli interessi del paese.
La Libia ovviamente appartiene al circolo Mediterraneo. L’Italia ha da sempre sviluppato una politica autonoma in Libia e puntato a creare una interdipendenza tra i due paesi. Inoltre la Libia del Colonnello Gheddafi, che l’ha guidata dal 1969 al 2011, per i policy makers italiani ha rivestito un ruolo stabilizzante in Nord Africa. Negli anni ’70, grazie alle posizioni antimperialiste di Gheddafi, aveva limitato l’espansione sovietica. Dopo, grazie alla sua aperta rivalità, si era impegnato contro ogni forma di fondamentalismo religioso.
Questa vicinanza tra i due paesi ha avuto anche un costo molto alto. La Libia ha sempre rifiutato una soluzione pacifica della questione palestinese, così come ha sostenuto gruppi terroristici, incluse le Brigate Rosse. L’insistenza libica per il pagamento di risarcimenti per la brutalità coloniale italiana è stata, poi, un’altra ragione di tensione. Gli Stati Uniti, non hanno mai nascosto il loro disappunto per le relazioni italo-libiche e il fatto che Craxi salvò la vita a Gheddafi almeno una volta.
L’interdipendenza raggiunse il suo apice con il Trattato di amicizia del 2009, che garantiva alla Libia la riammissione nella comunità internazionale e favoriva la normalizzazione delle relazioni con gli USA.
La Libia aveva già una presenza importante in Italia. Il fondo sovrano del paese garantì liquidità a UniCredit nel 2008 e, nel 2009, acquisì il 2% di ENI. Autorità libiche acquisirono per un periodo anche quote di Finmeccanica, della Juve e della FIAT. Tutte società che hanno anche un peso notevole nell’indirizzare le politiche mediterranee.
Una conseguenza di questa interdipendenza fu la difficoltà dei governi italiani nell’invitare la Libia al rispetto dei diritti umani e nel condannare la repressione del Colonnello delle proteste del 2011. Ma era chiaro che l’Italia aveva scelto la chiara politica di non-interferenza.
Anche per questo motivo molti commentatori hanno dubitato della capacità dei governi italiani di fare pressioni su Gheddafi per proteggere i propri interessi. Gli stessi commentatori, però, sembrano unanimi nell’assunzione che, grazie alla penetrazione libica nell’economia italiana, il Colonnello ha avuto grande capacità di influenzare Roma. Il Gheddafi aveva a sua disposizione anche le carte dell’immigrazione clandestina e dello spettro del terrorismo. Carte che altri attori del Medio Oriente sfruttano oggi per influenzare la politica estera italiana.
Ma quali sono esattamente gli interessi italiani in Libia? Possiamo raccoglierli sotto tre titoli: energia, immigrazione e sicurezza.
La Libia ricopre un ruolo importante nella politica energetica del nostro paese, non solo per la quantità di petrolio e di gas naturale ma anche per l’alta qualità del greggio libico. Inoltre, dal 2004, è in funzione il gasdotto sottomarino Greenstream costruito dall’ENI. E il gas libico è probabilmente il miglior sostituto del gas russo. Nel passato, la Libia aveva bisogno degli investimenti italiani nel settore degli idrocarburi per migliorare i propri impianti e raggiungere i mercati internazionali ma anche per il processo di ridistribuzione degli introiti. L’ENI, infatti, si è adoperata per realizzare opere pubbliche in cambio dei propri guadagni.
Oggi, però, seppur importante, la Libia non è più vitale per il sistema energetico italiano, che già dalla crisi petrolifera degli anni ’70 ha puntato alla diversificazione delle risorse energetiche ed anche a moltiplicare le risorse. Questo è ancora più vero dopo la crisi del 2011, da quando, cioè, le importazioni di gas e petrolio sono diminuite notevolmente.
Il capitolo migrazioni, così come in quasi tutti i paesi europei, è ancora molto rilevante. E gran parte dell’immigrazione clandestina che arriva sulle coste italiane ha origine dalla Libia. La questione ha creato non poche tensioni politiche e sociali. Se da una parte la Chiesa ha chiesto una politica di accoglienza le destre hanno puntato sul fermare gli immigranti in Libia e hanno chiesto una modifica al Regolamento di Dublino, che impedisce la distribuzione dei migranti tra tutti i paesi europei e fortemente osteggiata da questi paesi.
Il Memorandum d’intesa, firmato nel febbraio 2017, tra l’Italia e il governo riconosciuto dall’ONU di Fayez al-Sarraj, ha formato una cornice per i due paesi che creava gli strumenti per la lotta comune all’immigrazione clandestina. Le partenze dalla Libia sono diminuite dell’80% nell’anno successivo. Questo Memorandum, tuttavia, è stato fortemente contestato dall’opinione pubblica libica che si vede impegnata nella detenzione e rimpatrio di migliaia di africani. È stata anche criticata da molti per le condizioni disumane di questi enormi lager.
Un altro importante capitolo è la sicurezza. Dopo la nascita del DAESH (ISIS) in Iraq e Siria il pericolo del terrorismo si è fatto ancora più grande. Il DAESH è stato capace di costruire una specie di stato, anche se non riconosciuto a livello internazionale, che ha unito terrorismo internazionale, criminalità, azioni militari e un abile uso dei social senza precedenti. Tutto questo ha, ancora una volta, dimostrato l’importanza della stabilità nella regione.
Il pericolo terrorismo è concreto. Non dimentichiamoci che il DAESH è emerso anche in Libia, e la coalizione internazionale è stata fondamentale per eliminarlo. Detto questo, però, penso che molti paesi nell’area abbiano manipolato le posizioni italiane con lo spettro del terrorismo e abbiano, così, legittimato la repressione interna invece che una politica di inclusione, che potrebbe diminuire il pericolo della violenza politica.
Il miglior esempio è probabilmente l’Egitto, definito dai policy makers italiani come “un ineludibile partner” nel Medio Oriente. Questa posizione fu mantenuta anche dopo il massacro di Giulio Regeni nel febbraio del 2016 molto probabilmente per mano di membri delle forze di sicurezza egiziane, mai consegnati alla giustizia.
Quali, dunque, le possibili prospettive? L’interesse primario dell’Italia in Libia rimane senza dubbio quello di creare stabilità in Libia. L’opzione favorita dal nostro paese è quella di un compromesso arbitrato dall’ONU tra i belligeranti e il mantenimento dell’unità nazionale.
Seppur diversi commentatori abbiano preteso un ruolo più importante per l’Italia, è difficile che possa giocare questo ruolo. Nel 2016, il governo Renzi aveva la capacità di farlo, grazie anche ad una posizione politica più forte, ma non assunse nessun ruolo. Il governo Conte e il suo Ministro degli Esteri sono più debolii. Bisogna anche aggiungere il fatto che la politica estera italiana nel terzo cerchio Mediterraneo è sempre più debole in generale ed, in particolare, in Libia.
La prima ragione di questa debolezza è certamente il fatto che la politica estera ha bisogno di essere sostenuta dall’opinione pubblica. I media nostrani, però, seguono la crisi libica in modo sporadico e senza approfondimenti. L’unico argomento che sembra essere rilevante è una eventuale crisi di migranti. Matteo Salvini fa in modo di mantenere l’argomento sulle prime pagine, visto che l’ha finora aiutato a vincere consensi. Ma l’immigrazione illegale è un problema molto più vasto che non può essere risolto in Libia.
L’opinione pubblica è anche contraria ad operazioni militari che, però, potrebbero costringere le parti ad un accordo politico. Gli italiani non pensano che l’uso della forza sia uno strumento di politica estera. Quindi l’avversario non è visto come un nemico irresoluto che vada confrontato con la forza militare ma piuttosto che vada usata sempre la diplomazia. Lo svogliato supporto all’azione militare contro Gheddafi nel 2011 fu sostenuto solo dal 40% della popolazione, il sostegno più basso in Europ.
Eppure, le nuove dinamiche nel Medio Oriente impongono azioni più forti. Il Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa sostiene che se la sicurezza Euro-Atlantica è garantita dalla NATO, UE, valori comuni e legami economici e culturali. Mentre la sicurezza Euro-Mediterranea soffre di una instabilità politica economica così come anche competizione fra i deversi stati.
Ma le Forze Armate italiane difficilmente interverrebbero in uno scenario al di fuori di missione guidata dagli USA. La partecipazione in Libia contro il DAESH nel 2016 e, nel 2017, a sostegno del governo di Tripoli fu possibile solo grazie all’interesse del governo Obama. Il governo Trump, invece, ha mostrato pochissimo interesse per la questione libica. Quindi una presenza militare italiana non andrebbe oltre l’addestramento di forze e il capacity building.
In molti vedono come un vantaggio il fatto che l’Italia abbia contatti con tutte le parti in Libia. Dopo la conferenza di Vienna nel 2016, l’Italia ha riconosciuto il governo legittimo di Tripoli e quello di Bengasi, illegittimo dal punto di vista del diritto internazionale ma militarmente più forte, come pari. Questo, però, ha creato uno stallo diplomatico, perché ognuno usa la propria forza per evitare il compromesso.
La politica estera ha anche bisogno di capacità economiche ma queste sono limitate a causa del suo enorme debito pubblico e di una crescita economica modesta. Anche il capitale privato sta venendo a mancare. Aziende italiane, che in passato avevano giocato un ruolo nelle politiche mediterranee, come FIAT, UniCredit o Impregilo sono sempre meno italiane e molto spesso i capitali dei paesi esportatori di petrolio iniettati in queste aziende impediscono una politica autonoma. L’unico attore economico italiano rilevante è senza dubbio l’ENI, che dal 1959 opera in Libia. L’ENI, però, non detiene più l’esclusiva tecnologica e deve affrontare la competizione di compagnie coreane e cinesi (ma anche turche) che godono di un sostegno politico più incisivo.
La cooperazione e gli aiuti umanitari svolgono un ruolo notevole in politica estera e la cooperazione italiana è attiva in Libia. Tuttavia, paesi come la Turchia si sono mostrati molto più abili e incisivi in contesti di emergenza (per esempio Siria, Somalia e Albania).
Se tutti si auspicano un ruolo di spicco dell’Italia e il nostro Primo ministro e Ministro degli Esteri hanno visitato le capitali della regione, bisogna riconoscere che la forza del nostro paese nel contesto Mediterraneo si fa sempre più flebile.
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