Che il popolo resti avvinghiato alla cronaca dell’urgenza, non desta meraviglia, piuttosto suscita amarezza che gli intellettuali d’oggi non riescano ad andare oltre il conformismo dell’emergenza, in cui si resta avvinghiati alla sola superficie che emerge. Su cui è semplice imprimere la retorica della resistenza, dell’unità o della potenza catartica della crisi. Tutti flebili caratteri tanto in voga ora nei discorsi quotidiani, che verranno spazzati via al primo vento di normalità. Pochi si interrogano su cosa sia sepolto ma vivente nelle radici di tale emergenza, ovvero un sentimento, compresso nella parola terrore.
Albert Camus in un discorso fatto nel 1946, quando il mondo intero festeggiava la vittoria contro l’incarnazione del Terrore (il nazismo), metteva in guardia l’umanità, affermando con tono provocatorio: “ Vivere contro un muro, è la vita dei cani.” Secondo lui l’uomo si era ammalato di un’altra forma di terrore, meno appariscente e per questo più insidiosa: la presentificazione. L’umanità era ancorata ad un eterno presente, un tempo sradicato dalla continuità tra passato e futuro, su cui era man mano stato cancellato ogni valore.
La volontà di potenza del più forte e il terrore del più debole
Per questo motivo la dignità umana era stata sopraffatta dall’unico valore sovrascrivibile sulla presentificazione, quello dell’efficacia e del successo. Da cui si sarebbe implementata la volontà di potenza del più forte e il terrore del più debole. Ironia della sorte, la paura oggi si è manifestata proprio sotto forma di nuova peste, malattia con cui lo scrittore algerino aveva espresso la metafora della patologia umana del suo tempo. Sono trascorsi decenni, ma la diagnosi è immutata. Uscire dalla retorica attuale, richiede allora un’inversione di prospettiva, provando anche a passare dalle parole di cronaca degli uomini appestati allo sguardo della peste stessa.
Mi domando se è viver lecito questo nostro andare.
In ombra al via vai di certezze, scavi e studi di medici, tarocchi e abati, prendo fiato nello sguardo d’una bestia e mi domando se è viver lecito questo nostro andare.
Questo funesto terrore d’un ostacolo, d’un negarsi del mondo e della vita, dianzi a noi predicatori di burocratiche catene.
Non mi appello al Dio che ormai si è defilato, neppure al diritto che inscena il calvario e neppure al destino che solo ad un integro mormorar di popoli avvinti deve esser invocato.
Ma se è vero che “non di solo pane vive l’uomo” allora un Male impunito dev’essersi svegliato, dal letargo di un Bene inventato. La peste.
Questa parola così desueta, parola d’occasione, mai volta ad altra intenzione, se non “contagio prossimo in azione”.
Eppur ora che al verso si presta, tutto si fa chiaro ad un mondo sfibrato, ad un mondo infelice di conservare e timoroso nell’indietreggiare.
Mi rivolgo ora ad una questione tutt’altro che temporanea, tralasciando per un attimo quanto accaduto.
Dove sono i poeti?
Dove sono i poeti? In questi tempi di pandemica furia vorrei sentir più voci amiche prestar il tono alla verità. Sappiamo che poesie son sorte dalla nebbia, poesie di risonanza e origine patetica, poesie donate agli uomini come svenimento, come ultimo spasimo di debolezza.
Mi sovviene la sentenza campiana: “ Un tempo il poeta era là per nominare le cose ”. Io aggiungerei che il poeta deve esser pronto a dissotterrare le antiche notti e con gesto disperato dar voce alle presenza ignote che son attorno a lui vincolo perfetto.
Qualcuno saprà forse comprendermi e raggiungermi in questa assenza, in questo mondo impreparato, che veglia su deboli freni, appena la morte volge un solitario ululato.
Così ho voluto dar autonoma aria alla presenza ingorda che gira invertita, tra noi già sfigurati, scrivendo una poesia non alla mia volontà arresa, ma al giorno che è mutato, al ricongiungersi di pene che è tempo di baciare in cerchio.
Lascio qua il mio segno e la mia paura di resa dell’umano, dinanzi al suo impotente sogno d’esser indisturbato.
La peste
Un pensiero aggiungo nero
ove la grigia legge fallisce,
cadute le fasce di salute
son d’obbligo le pene.
Tornar deserto deve l’urlo
ed alla cenere voltar guarigione,
disfatte in acque fluenti
conquiste vili e desideri;
così io, degna ancella del
punire, sarò vostra preda,
nel mio occhio fiero di madre
sarete spiga matura d’attenzione.
Ora vi vedo ancor meglio, come specchi dai
destini tremolanti, dietro alla porta
che origliate i miei ginocchi rotti
venir andanti tra baci innocenti;
asserviti al mio motore or che non
vi è più momento che passi nudo,
per il tempo sfuggito al volto
tutto si poggerà unito nell’istante
sfiorato; rivolti all’unico male
sarete vuoto che rimane.
Articolo di Blu Temperini e Paolo Grasso
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