Conoscevo già da tempo Mohamad, (lui medico giordano, musulmano; io bancario italiano, ora in pensione, non credente), con il quale, seppur non incontrandoci frequentemente, era sempre gradevole intrattenersi in conversazioni che, grazie anche alla sua arguzia ed alla sua ironia, non scadevano mai nell’ovvio né, tanto meno, nella banalità.
Fu soltanto dopo tante di queste chiacchierate che Mohamad mi chiese notizie e informazioni sulla mia terra d’origine e, in particolare su Palermo, mia città natale.
Confesso di essere rimasto piuttosto sorpreso da questo suo interesse, proprio perché giunto cronologicamente ed inspiegabilmente tardivo. Capii, però, che anche questo era un modo di conoscersi meglio e che ognuno sceglie un proprio metodo per farlo, per accorciare inutili distanze, per disattivare remore e diffidenze che, nel nostro caso, ci portarono alla costruzione di un rapporto di vera e duratura Amicizia.
Nel giro di 10, 15 minuti, pause comprese, tentai di improvvisare una descrizione o, sarebbe meglio definirla, una spremuta di storia, con qualche riferimento di carattere turistico dal momento che io, appunto, non sono né uno storico, né un accademico, dell’isola e della città in cui avevo vissuto sino ad una certa età (nel 1986, quando avevo 37 anni, la banca mi trasferì a Como).
Entusiasta Mohamad della mia esposizione, vidi apparire, almeno questa fu la mia sensazione, nei suoi occhi una strana luce di esultanza (probabilmente la stessa luce che ispira ed illumina chi scrive su questo giornale) e di stupore, quello stesso sbalordimento che spunta sui volti dei bambini dopo avere ascoltato fantastiche favole.
La mia, ahimè, non era una di quelle ma ciò che veramente avevo provocato con il mio “racconto”, fu una seconda domanda: potevo ripeterlo alla presenza di più persone?.
Colto all’improvviso e ulteriormente meravigliato, la mia risposta fu, senza esitazione alcuna, affermativa.
Fu proprio durante quel colloquio e sulla scorta di quei pochi e superficiali dati che avevo fornito che a Mohamed venne l’idea di organizzare una conferenza o qualcosa di simile sull’argomento.
Ebbe così inizio un lungo, appassionante quanto incognito cammino che sarebbe durato ben due anni, durante i quali ho trascorso tutte le mie domeniche (tranne un paio) presso la Moschea di Segrate, per preparare, insieme ad altri infaticabili collaboratori, quel progetto che aveva l’ambizioso obbiettivo, col il titolo “Islam e Sicilia”, di richiamare l’attenzione su una parte della storia d’Italia, abbastanza ignorata, quella che riguarda, appunto, la storia dell’Islam nel nostro Paese. L’intenso lavoro svolto sulla materia vide la sua “uscita” domenica 17 marzo 2013, all’interno dello stesso Centro Islamico, al cospetto di un pubblico quanto mai eterogeneo.
Frequentare per circa 24 mesi la Moschea, mi ha permesso di entrare in un mondo per me parzialmente conosciuto, sollecitandomi alla verifica di talune mie convinzioni sulla società musulmana.
Desidero sottolineare che non sto scrivendo su questo giornale per farne propaganda, l’elogio o per compiacere qualcuno, ma semplicemente perché la mia testimonianza, spero di carattere neutro, ovvero non di parte, possa favorire una proficua riflessione sull’esistenza e sulla pratica di discriminazioni, di pregiudizi e di intolleranze che, pericolosamente, affliggono molto di più coloro che li causano, rispetto a coloro che li subiscono.
Da Como, prendevo il treno per Milano e poi, da li, la metropolitana sino alla fermata di Lambrate, dove c’era sempre qualcuno ad aspettarmi e che, in auto, mi portava in Moschea, per poi, a fine “lavoro”, riportarmi indietro.
Dalla prima domenica, come del resto per tutte le dominiche seguenti, l’accoglienza che mi veniva riservata era, a dir poco, imbarazzante (gentilezza, cortesia e te bollente non mi sono mai mancati), considerando che io non ero (e non lo sono tuttora) una persona importante, né godo di fama o di notorietà. Ho capito, dopo qualche tempo, che quel “trattamento” non aveva, in realtà, nulla di speciale, nel senso che non era stato disposto, esclusivamente per me, ma era una normale consuetudine con cui venivano ricevuti gli ospiti della Moschea.
Quella forma di disagio, quindi, si trasformò in un sincero apprezzamento per quei gesti e quelle premure che, abitualmente, sono destinate a parenti e ad amici o a persone che si conoscono da lungo tempo e non ad estranei, di cui non si sa nulla.
Questo primo segnale, apparentemente convenzionale, mi fece capire come le paure, i dubbi e i preconcetti, possano sgretolarsi difronte ad un sorriso, ad una mano tesa, ad un abbraccio ed anche ad…un te, sempre rovente, ovviamente.
Da parte mia, ogni tipo di residua prevenzione venne rapidamente meno perché fui messo in condizione di essere, pienamente e piacevolmente, a mio agio.
Ciò mi consentì, in modo del tutto naturale, quanto imprevedibile e senza nessuna forzatura psicologica, di poter instaurare rapporti privi di sterili e ipocrite formalità, tanto che con qualcuno ancora oggi ho legami di profonda, solida e sperimentata Amicizia.
Amicizia, che non è stata mai strumentalizzata per “incoraggiarmi”, per esempio, per convertirmi all’Islam. Infatti, mai nessuna delle persone con cui sono stato in contatto, allora come ora, mi ha, neppure velatamente, fatto cenno o sussurrato un’ipotesi di questo genere.
Ho partecipato ad alcune “funzioni” religiose e per quelle, dove era previsto l’uso della lingua araba, mi venne, addirittura, affiancato un interprete in lingua italiana che, successivamente, mi dava anche una spiegazione di quello che avevo visto ed ascoltato.
Le “omelie” tenute dall’Imam (in italiano) si concludevano, ogni volta, con un accorato e fermo richiamo alla pace ed al rispetto delle persone, chiunque queste fossero. Se c’è stata una “radicalizzazione”, di cui tanto ed a sproposito molte volte si discute, da parte mia, lo confesso, c’è stata: quella di saper apprezzare con maggiore consapevolezza rispetto a prima di questa mia esperienza la dignità di ogni essere umano.
Conservo un particolare ricordo della celebrazione di un matrimonio e dei festeggiamenti che sono seguiti, svoltisi all’interno della Moschea.
La maggior parte degli invitati aveva portato cibo e bevande, una forma inconsueta di catering solidale, almeno per un banchetto nuziale. Non c’erano tavoli assegnati o prenotati, ognuno prendeva posto in modo del tutto casuale, così come ognuno mangiava quello che capitava, niente menù, ovvero quello che si voleva realmente gustare, senza badare che si trattasse del primo, del secondo o viceversa o di altro, ancora.
Non erano soltanto le pietanze a mescolarsi in maniera allegramente disordinata, ma anche tutte le persone li presenti mi sono sembrate far parte di una sola famiglia, risultando pressoché impossibile accorgersi di differenze, somiglianze, parentele, affinità.
In verità, tutto questo si mostrava ai miei occhi come una metafora della vita la quale non prevede confini, né distinzioni tra individui, dal momento che questi, indistintamente, appartengono ad un solo genere: quello umano.
Quindi, la conferenza mi ha, letteralmente, aperto le porte su un “habitat”, per me, sorprendentemente positivo e stimolante, dove non ho visto nulla di oscuro, né di segreto o temuto qualcosa di minaccioso, né ho visto o sentito qualcuno che incitava alla guerra santa contro chi è ostile all’Islam e a chi ne segue la dottrina.
Sono stato, altresì, ospite presso abitazioni di amici musulmani, maturando l’dea che, le loro attenzioni nei miei riguardi, erano frutto di spontaneità e di semplicità che sono elementi fondamentali per creare durevoli rapporti di stima reciproca.
Ho partecipato (in quanto ospite) ad assistere a manifestazioni sportive e ad altre attività di natura socio-culturali, libero di esprimere le mie opinioni, avvertendo, semmai, la necessità di comportarmi con la massima sincerità e con lo stesso affetto che i miei nuovi amici musulmani mostravano verso di me.
La conferenza “Islam e Sicilia” aveva, come sottotitolo, “Un incontro che dura da 1200 anni”. Credo che tutta la nostra esistenza dovrebbe avere al centro questa parola, incontro, che può determinare un’armonia nelle molteplici e differenti condizioni di convivenza tra gli uomini, nonché tra questi e la natura. A questa mia opinione, del tutto soggettiva, naturalmente, aggiungo una frase, tratta dai tanti insegnamenti del mio Maestro di Storia e Filosofia del liceo che, suppongo, possa rappresentare più che una speranza, soprattutto una bussola per orientare i nostri modi di agire e di pensare.
Nel dialogo ragionato maturano le certezze, si verificano le convinzioni, si abbandonano i pregiudizi, si scopre il limite di ogni intolleranza civile e culturale.