Quando iniziai a seguire il calcio, cioè quando ero solo un bambino che da poco aveva lasciato la prima infanzia, scelsi, come si potrebbe fare oggi nel mondo virtuale di Second Life – a proposito, esiste ancora? – un avatar, e un insieme di avatar; scelsi il campione che più mi affascinava, e con lui la squadra che sarebbe diventata quella del mio cuore, che mi avrebbe rappresentato in quella dimensione virtuale, che era il mondo calcistico come lo immaginavo in quegli anni lontani. Quell’avatar, quel campione era Omar Sivori, un artista argentino della pelota, uno non molto distante per sublime tecnica calcistica ed estro da quello che sarebbe stato anni dopo Diego Maradona, e ovviamente scelsi anche la sua squadra, la Juventus.
In quel mondo esistevano album di figurine che noi bambini collezionavamo e con le quali giocavamo; trasmissioni sportive, prima fra tutte Tutto il calcio minuto per minuto, e poi, finalmente, divenuto grandicello sarei andato un giorno in uno stadio vero e avrei visto per la prima volta miracolosamente quelle figurine che avevo incollato all’album prendere vita e farsi realtà, materializzarsi in esseri umani in carne e ossa che rincorrevano un pallone su un prato verde smeraldino come mai avrei potuto immaginare guardando La domenica sportiva, o il secondo tempo della partita che la rai trasmetteva verso le sette di sera, la domenica; tutto in quegli anni sessanta ovviamente in bianco e nero.
Il mio imprinting juventino mi fu forse trasmesso dalla tv che non era a colori, quando le immagini delle partite trasmettevano squadre uniformemente grigiastre, o nere, salvo che a giocare fosse la Juventus, e allora i colori delle maglie dei giocatori risaltavano, e mi parevano più colorate, più attraenti delle altre. O forse, furono le partite giocate nel cortile della scuola dove si organizzavano squadre che chiamavamo Juventus, Inter e Milan, e anche se tutto sommato ero un po’ schiappa, a me toccava sempre di giocare nella Juventus.
I miei primissimi avatar calcistici furono, come ho detto, Sivori, e poi Charles, Boniperti, Emoli, Garzena, Nicolè, e altri che sarebbe lungo nominare. Una volta superato il tremendo trauma del passaggio del mio avatar preferito, quell’argentino funambolico e tanghista di nome Omar Sivori, al Napoli, a consolarmi ne arrivarono altri, e presero le fattezze di Helmut Haller, di Pietro Anastasi, di Fabio Capello, e poi ci furono gli anni ottanta, quando ormai ero un adulto teoricamente responsabile e padre di famiglia, e vennero altri avatar calcistici: Roberto Bettega, Paolo Rossi e quello per me indimenticabile, il francese chic, monsieur Michel Platini.
Maradona no, Maradona non è mai stato, purtroppo, il mio avatar. Tutt’altro. Lui era un potentissimo avatar nemico; una potenza rivale e ostile, dalla quale bisognava chiedere protezione alla breriana dea Eupalla. Ahi quanti dolori Maradona mi diede. Ricordo fra tutti i gol che inflisse alla Juve, – e chi non lo ricorda? -quella incredibile punizione dal limite dell’area al San Paolo di Napoli, quella in cui la barriera bianconera non volle mettersi, come sarebbe stato giusto, a distanza regolamentare dal punto in cui l’arbitro aveva sistemato il pallone, e i suoi compagni di squadra protestavano con l’arbitro, ma lui sublime, disse loro di non insistere che tanto il gol l’avrebbe fatto lo stesso, e lo fece, lo fece.
Maradona avrebbe potuto diventare un mio idolo calcistico, avrebbe potuto essere acquistato dalla Juventus. Vivevo all’epoca tra Uruguay e Argentina quando sentivo favoleggiare di un ragazzino fenomenale, uno che giocava nelle cebollitas, letteralmente le cipolline, cioè nei ragazzi dell’Argentinos Junior; un ragazzino che intratteneva gli spettatori della partita dei grandi, fra un tempo e l’altro durante l’intervallo, deliziandoli con palleggi di piede, di testa, di spalla, di schiena che lo facevano sembrare un giocoliere da circo, quasi una foca.
Si dice che la notizia dell’esistenza di questo fenomeno in erba fosse giunta fino a Torino, fino alle orecchie dell’allora presidente della Juventus, Gianpiero Boniperti.
Purtroppo il sabaudo presidente, che pure di calcio ne capiva e parecchio, lasciò perdere il giovane Maradona.
Probabilmente pensò a lui come a uno dei tanti precocissimi fenomeni sudamericani che comunque sarebbe costato parecchio portare a Torino con tutta quella sua numerosa famiglia; otto fra fratelli e sorelle, più padre e madre, e che magari avrebbe poi deluso le aspettative, come spesso avviene con i fenomeni in erba, e non avrebbe giustificato l’investimento. Mai decisione fu più infelice, ma come biasimare il vecchio presidente? Facile dar giudizi col senno di poi.
Maradona invece che alla Juve andò al Boca, e da lì spiccò il volo per l’Europa: prima a Barcellona e poi, ahimè, a Napoli, dove divenne una spina nel fianco per tutte le altre squadre di calcio italiane e soprattutto per la Juve, la squadra più odiata ed amata d’Italia. Odiatissima a Napoli.
A Napoli Maradona divenne una specie di divinità; nella temperie pagana partenopea gli furono elevati altari, edicole votive; lo si adorò come un dio e non solo come un dio del pallone. Si racconta che la camorra riuscì a circuirlo, ad approfittarsi delle sue umane debolezze, a renderlo schiavo della cocaina. Napoli è città passionale, molto passionale e lui ne rimase prigioniero, ne rimase schiacciato. Non poteva uscire di casa senza che immediatamente una folla di persone osannanti si raccogliesse intorno a lui. Raccontano che se voleva andare al ristorante con amici e famigliari, non poteva farlo prima delle tre del mattino. Sarebbe stata durissima per chiunque.
A Torino, città freddina e distaccata, tutto per lui sarebbe stato più semplice, in pochi l’avrebbero importunato e forse anche i suoi rovinosi problemi di droga non ci sarebbero stati. Ma la storia è andata diversamente ed è inutile ora far castelli in aria.
Maradona ci ha lasciati, a sessant’anni, un’età con i criteri di oggi tutto sommato ancora giovane. Se n’è andato dunque con largo anticipo, ucciso da un infarto sopraggiunto su un fisico minato da lunghi anni di eccessi. Diego Maradona è stato un calciatore immenso, forse il più grande di sempre; ha fatto sognare Napoli e con un gol strepitoso ha consolato la sua patria argentina dell’umiliazione subita per la guerra perduta delle Falkland, le sue imprese calcistiche sono leggenda. Ci mancherà, che gli sia lieve la terra.